mercoledì 3 novembre 2010

Oriana Fallaci ci lascia in eredità la storia della sua famiglia in 860 pagine

"Con Oriana Fallaci se ne va una giornalista coraggiosa, una scrittrice libera. Le sue interviste e i suoi reportage hanno aiutato generazioni di italiani a comprendere i fatti del mondo, a conoscerne le storie".
Voglio cominciare questo articolo con le parole di un giornalista della sinistra italiana, Walter Veltroni. Scelgo proprio le sue, perché sono convinta che, in morte di Oriana Fallaci, abbia espresso l'unica considerazione che contasse, che si dovesse fare su questa donna, a dispetto delle strumentalizzazioni politiche esercitate sui suoi ultimi scritti, e cioè che è stata non solo una penna eccezionale, ma una giornalista coraggiosa e forte, una "scrittrice libera", libera di dissentire, libera di indignarsi senza temere critiche né condanne.
Oriana Fallaci, che piaccia o no, è stata la voce della nostre coscienze: non mi riferisco solamente al periodo post 11 settembre; di lei ci parlano le pagine del diario che scrisse in trincea nel 1969 ("Niente e così sia"), quelle che raccontarono con sdegno dell'omicidio di Alexandros Panagoulis ("Un Uomo", 1979), suo compagno di vita, quelle che fissarono per sempre nero su bianco il primo passo dell'uomo sulla Luna e raccontarono le grandi aspettative riposte sulle missioni spaziali, e sul progresso ("Se il sole muore", 1965).
Oggi, a distanza di due anni e con la collaborazione di Edoardo Perazzi, suo nipote e unico erede, che l'accompagnò sino al giorno in cui si spense, viene pubblicato per Rizzoli Editore l'ultimo "figlio" della scrittrice fiorentina, "Un cappello pieno di ciliege¹ " - una saga", che ripercorre la storia dei suoi antenati dal 1750 al 1889. Un lavoro monumentale, faticoso, che Fallaci cominciò all'inizio degli anni '90, quando scoprì di essere malata. "Ora che il futuro s'era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l'inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire", scrive nell'incipit del romanzo, a rimarcare quanto il desiderio di ritrovare le proprie radici prima di lasciarle per sempre l'abbia spinta a mettersi al lavoro, chiudendosi in casa per vent'anni, interrompendosi solamente per urlare la propria "rabbia" e mostrare al mondo la forza del proprio "orgoglio". Noi tutti conosciamo bene la portata di questa interruzione: Fallaci venne ostracizzata persino dalla sua città natale, Firenze, che le negò il Fiorino D'Oro, massimo riconoscimento civico riservato a personaggi che "in qualsiasi modo abbiano contribuito a dare lustro alla città o si siano distinti a livello internazionale per la loro opera", citando letteralmente dal sito del comune fiorentino.
Nel mio piccolo, da queste pagine, auspico che questo libro, lontano dal personaggio pubblico e vicino alla donna, possa riconciliare non solo la scrittrice con la propria città, ma soprattutto la sua memoria con le nostre divergenze politiche; che Oriana Fallaci torni ad essere, nella memoria di tutti gli Italiani, l'Intellettuale che forse non ci siamo meritati, ma che ci ha resi fieri e ci ha aperto gli occhi sulla nostra storia, nel bene e nel male.
 
Erika Muscarella